mercoledì 27 ottobre 2010


Chiesa di Sant'Atanasio dei Greci
via del babuino - roma




Domenica 31 Ottobre alle 10:30
sarà celebrata la Divina Liturgia
ed un Trisaghion in memoria del
rev. Archimandrita Eleuterio Fortino
nel 40° giorno della sua comparsa


Eterna la Sua memoria.





domenica 24 ottobre 2010

26 Ottobre: San Demetrio Megalomartire







Il 26 ottobre ricorre la festa del Megalomartire Demetrio da Tessalonica, festa solennizzata in tutto l' Oriente Cristiano.
Demetrio il gloriosissimo martire di Cristo, visse sotto l'impero di Massimiano nella città di Tessalonica, era pio e maestro della fede verso Gesù Cristo. Massimiano, essendo andato in Tessalonica e avendo saputo chr S. Demetrio era cristiano, lo fece prendere e torturar, e poi lo rinchiuse. Massimiano aveva allora un lottatore di nome Lieo, e con lui si vantava che nessuno era in gradi di vincere Lieo. Un giovane di nome Nestore, saputò ciò arse di zelo e, introdottosi in prigione presso S. Demetrio, ricevette da lui il consenso. Avendo vinto Lieo, lo uccise, Massimiano si addolorò per la morte del lottatore e saputo che la causa della sua morte era stato Demetrio, mandò ad ucciderlo nella prigione. I soldati, introdottisi nella prigione con gli astati, lo trafissero. La dove ora giace, fa sgorgare guarigioni.



Apolitikion:

Μέγαν εύρατο εv τοίς κιvδύvοις, σέ υπέρμαχοv η οικουμένη, Αθλοφόρε τά έθνη τροπούμενον. Ως ούν Λυαίου καθείλες τήν έπαρσιν, εν τώ σταδίω θαρρύvας τόν Νέστορα, ούτως Άγιε,
Μεγαλομάρτυς Δημήτριε, Χριστόν τόν Θεόν ικέτευε, δωρήσασθαι ημίν τό μέγαέλεος.

Il mondo ha trovato in te nei pericoli, o vittorioso, un grande difensore che mette in rotta le genti. Come dunque hai abbattuto la boria di Lieo, incoraggiando Nestore nello stadio, cosí, o santo megalomartire Demetrio, supplica Cristo perché ci doni la grande misericordia.



martedì 19 ottobre 2010

Leggi delle Chiese di rito orientale: storia e portata


S.E.R. Mons. Cyril Vasil', S


20 anni dalla promulgazione del Codice di Diritto Canonico Orientale

Intervista con S.E.R. Mons. Cyril Vasil', SJ
Dopo 20 anni dalla promulgazione del Codice di Diritto Canonico Orientale, è necessario "far emergere la sua ricchezza disciplinare, spirituale e di dialogo, e studiarne ulteriori potenzialità applicative".

Lo ha affermato questo giovedì mattina monsignor Cyril Vasil S.I., segretario della Congregazione per le Chiese Orientali e Vescovo di Tolemaide, in Libia.
Il Codice di Diritto Canonico per le Chiese Orientali è stato pubblicato nel 1990 e regola i 23 riti sui iuris della Chiesa cattolica. Per questa ragione, si svolgerà a Roma questi venerdì e sabato un congresso per commemorare la seconda decade della sua promulgazione.
I riti sui iris hanno origine nelle tradizioni alessandrina, antiochena, armena, caldea e costantinopolitana. In materia di sacramenti e degli elementi essenziali della fede cattolica, i riti orientali hanno le stesse leggi del rito latino. Il compendio dei canoni per le Chiese orientali ha tuttavia elementi particolari. Parlando con ZENIT, monsignor Vasil, di origine slovacca e appartenente al rito bizantino, ha detto che il Codice di Diritto Canonico per le Chiese orientali "rappresenta la conclusione di un iter formativo del Diritto Canonico con speciale riguardo per le Chiese cattoliche orientali". Con la promulgazione di questo compendio di leggi, ha segnalato, "è la prima volta nella storia che abbiamo un codice comune a tutte le Chiese cattoliche orientali e un codice promulgato insieme come un intero libro dal Romano Pontefice".

Un po' di storia


La ricerca della promulgazione del Codice di Diritto Canonico per le Chiese orientali è nata nel 1927 sotto il pontificato di Pio XI, "con preparazione dei lavori previ e raccolta delle fonti delle singole Chiese orientali, raccolte nei numerosi volumi pubblicati nelle Chiese orientali stesse", ha spiegato monsignor Cyril. Si è iniziato così a pubblicare "singole parti di un futuro codice", ha riferito. A questo scopo, sono stati pubblicati prima quattro motu proprio che coprivano gran parte della materia giuridica di questo Codice. Quando il testo era già pronto, Papa Giovanni XXIII annunciò la convocazione del Concilio Vaticano II, "e questo comportò un cambiamento di aspetti e la ripresa del lavoro sul nuovo Codice", ha spiegato il segretario della Congregazione per le Chiese Orientali. I lavori sono così ripresi nel 1972. Il Codice è stato approvato nel 1990 da Giovanni Paolo II, e ha rappresentato "il risultato dell'incessante preghiera della Chiesa", ha detto monsignor Cyril. E' un compendio di leggi che rappresenta "l'espressione della sua lunga tradizione spirituale e disciplinare (della Chiesa) e della saggezza di quei sacri pastori rivestiti della potestà conferita loro da Cristo per il bene delle anime".

Un cammino lungo 20 anni


Monsignor Cyril ha anche sottolineato i successi dell'applicazione di questo Codice nei
suoi due decenni di storia, che a suo avviso "sono sufficienti per poter vedere i primi risultati". Uno dei maggiori successi, ha commentato, è il progresso di una struttura più solida nella tradizione orientale e la sua valorizzazione ecclesiale. Ad esempio, la Chiesa malabar, la Chiesa malankar e la Chiesa rumena sono diventate Chiese arcivescovili maggiori. La Chiesa slovacca, dal canto suo, è ora una Chiesa metropolitana sui iuris.Il presule si è quindi riferito al caso dell'Europa orientale, dopo il cambiamento dell'aspetto geopolitico. "Siamo stati testimoni della nascita di alcune nuove Chiese, o dello sbriciolamento delle strutture ecclesiali in nuove circoscrizioni ecclesiastiche senza una univoca collocazione giuridico-amministrativa", ha indicato. "Il futuro indicherà qual è la strada che deve prendere un ulteriore sviluppo di queste comunità, quale deve essere il loro cammino". In questo contesto, c'è un contributo speciale delle Chiese circoscritte al rito bizantino in Europa, che si incontrano annualmente per trattare in modo fraterno vari aspetti della vita pastorale e dell'aggiornamento teologico, liturgico e giuridico. "Il cammino intrapreso in questi incontri comincia a portare i frutti di una reciproca conoscenza, di condivisione delle problematiche di interesse comune, di crescita del senso di solidarietà fra le nostre Chiese". Ad ogni modo, esistono altre Chiese particolari che procedono più lentamente. "Guardando il mosaico delle Chiese orientali cattoliche, specialmente in Europa, vediamo che le singole Chiese camminano a velocità differenziate", ha riconosciuto il segretario della Congregazione per le Chiese Orientali. Ad esempio, ci sono sedi diocesane che hanno la sede vacante da un decennio, "e senza la gerarchia vera e propria, o anche quelle che purtroppo finora non hanno una formale struttura gerarchica". Monsignor Cyril ha quindi concluso dicendo che il Codice di Diritto Canonico delle Chiese Orientali è diventato "il migliore strumento pastorale" e che in queste Chiese si è raggiunto "un equilibrio di struttura interna e di strumenti tecnici".

http://www.pontificio-orientale.com


lunedì 18 ottobre 2010

18 Ottobre: San Luca, apostolo ed evangelista


L'evangelista Luca in un manoscritto bizantino del X secolo

San Luca Evangelista, autore del terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli, è chiamato "lo scrittore della mansuetudine del Cristo". Paolo lo chiama "caro medico", compagno dei suoi viaggi missionari, confortatore della sua prigionia. Il suo Vangelo, che pone in luce l'universalità della salvezza e la predilezione di Cristo verso i poveri, offre testimonianze originali come il vangelo dell'infanzia, le parabole della misericordia e annotazioni che ne riflettono la sensibilità verso i malati e i sofferenti. Nel libro degli Atti delinea la figura ideale della Chiesa, perseverante nell'insegnamento degli Apostoli, nella comunione di carità, nella frazione del pane e nelle preghiere. Secondo la tradizione Luca nacque ad Antiochia da famiglia pagana e fu medico di professione, poi si convertì alla fede in Cristo. Divenuto compagno carissimo di san Paolo Apostolo, sistemò con cura nel Vangelo tutte le opere e gli insegnamenti di Gesù, divenendo scriba della mansuetudine di Cristo, e narrando negli Atti degli Apostoli gli inizi della vita della Chiesa fino al primo soggiorno di Paolo a Roma. Ma che c’entra Teofilo? E chi lo conosce? Da sempre ci pare un po’ abusivo questo personaggio ignoto, che vediamo riverito e lodato all’inizio del Vangelo di Luca e dei suoi Atti degli Apostoli. La risposta si trova nella formazione ellenistica dell’autore. Con la dedica fatta a Teofilo, che doveva essere un cristiano eminente, egli segue l’uso degli scrittori classici, che appunto erano soliti dedicare le loro opere a personaggi insigni. Luca, infatti, ha studiato, è medico e tra gli evangelisti è l’unico non ebreo. Forse viene da Antiochia di Siria (oggi Antakya, in Turchia). Un convertito, un ex pagano, cui Paolo di Tarso si associa nell’apostolato, chiamandolo "compagno di lavoro" (Filemone 24) e indicandolo nella Lettera ai Colossesi come "caro medico" (4,14). Il medico segue Paolo dappertutto, anche in prigionia: due volte. E durante la seconda, mentre in un duro carcere attende il supplizio, Paolo scrive a Timoteo che ormai tutti lo hanno abbandonato. Meno uno. "Solo Luca è con me" (2 Timoteo 4,11). E questa è l’ultima notizia certa dell’evangelista.

Luca scrive il suo vangelo per i cristiani venuti dal paganesimo. Non ha mai visto Gesù e si basa sui testimoni diretti, tra cui probabilmente alcune donne, che furono le prime a rispondere all'annuncio. C’è un’ampia presenza femminile nel suo vangelo, cominciando naturalmente dalla Madre di Gesù: Luca è attento alle sue parole, ai suoi gesti, ai suoi silenzi. Di Gesù egli sottolinea l’invitta misericordia e quella forza che uscendo da lui "sanava tutti": Gesù medico universale, chino su tutte le sofferenze, Gesù onnipotente e “mansueto” come lo credeva Dante nelle parole di Luca.
Gli Atti degli Apostoli raccontano il primo espandersi della Chiesa cristiana fuori di Palestina, con i problemi e i traumi di questa universalizzazione. Nella seconda parte è dominante l’attività apostolica di Paolo, dall’Asia all’Europa; qui Luca si mostra attraente narratore quando descrive il viaggio, la tempesta, il naufragio, le buone accoglienze e le persecuzioni, i tumulti e le dispute, gli arresti dal porto di Cesarea Marittima fino a Roma e alle sue carceri.
Secondo un’antica leggenda, Luca sarebbe stato anche pittore e, in particolare, autore di numerosi ritratti della Madonna. Altre leggende dicono che, dopo la morte di Paolo, egli sarebbe andato a predicare fuori Roma e si parla di molti luoghi. Di troppi. In realtà, nulla sappiamo di lui dopo le parole di Paolo a Timoteo dal carcere. Ma il Vangelo di Luca continua a essere annunciato insieme a quelli di Matteo, Marco e Giovanni in tutto il mondo. E con esso anche gli Atti degli Apostoli.

Απολυτίκιον Αγίου Λουκά

domenica 17 ottobre 2010

Dalla Chiesa Italo-Albanese

II Sinodo Intereparchiale

Oggi, Domenica 17 ottobre 2010, memoria dei Santi Padri del VII Concilio Ecumenico di Nicea, sono entrati in vigore gli Atti sinodali per le tre circoscrizioni ecclesiastiche bizantine in Italia: Diocesi di Lungro, Diocesi di Piana degli Albanesi, e il Monastero Esarchico di Grottaferrata.

Gli Atti sinodali comprendono i seguenti schemi: 1) Chiesa locale e Chiesa universale; 2)La S. Scrittura in una Chiesa locale; 3)Catechesi; 4) Mistagogia; 5) Liturgia; 6) Diritto particolare; 7) Diritto interrituale; 8. ) Rievangelizzazione; 9.) Evangelizzazione. 10. Epilogo: ‘Chiamati ad essere santi’(Rom 1,7).

“Lo schema conclusivo, che esprime lo scopo ultimo del Sinodo, contiene l’appello ad essere santi, cioè a stabilire la comunione personale di ciascuno con Dio, condizione che porta anche ad esprimersi e ad estendersi nella comunione con il prossimo: comunione fra le persone, fra le parrocchie e fra le Circoscrizioni. L’esigenza di comunione attraversa tutti i progetti degli schemi sinodali che, per aspetti diversi, concorrono a far nascere e a far crescere, o a difendere in momenti di crisi, la comunione ecclesiale.”(Archimandrita Eleuterio F.Fortino, Osservatore Romano, II Sinodo Intereparchiale /13.10.2004)

S.Em. il Cardinale Leonardi Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali,auspica che “le disposizioni, gli orientamenti e le esortazioni sinodali contribuiscano fortemente alla edificazione della vita cristiana in ciascuna circoscrizione e favoriscano una stretta cooperazione fra di esse a rinnovamento della presenza bizantina in Italia”(Diocesi di Lungro/La Circolare del 08.10.2010)

Doxa To Theò

venerdì 15 ottobre 2010

I padri sinodali in ascolto

Quello che lo Spirito dice alle Chiese

di Frédéric Manns
Studium Biblicum Franciscanum (Gerusalemme)

"Chi è costei che sale dal deserto profumata d'incenso?": durante il sinodo forse molti si faranno la domanda che si legge nel Cantico dei cantici (3, 6), quando vedranno i patriarchi e i vescovi d'Oriente rivestiti di tiare e di copricapi strani. Nel ii secolo Erma paragonava volentieri la Chiesa a una donna anziana, perché era stata creata agli inizi dei tempi. Questa donna anziana accompagnata da vergini numerose viene quest'anno dal deserto di Giuda e di Arabia.
È vero che la Chiesa è una, santa, cattolica e apostolica, ma deve respirare con due polmoni. I grandi concili ecumenici hanno inculturato il messaggio evangelico nel mondo ellenistico e romano. Ma la Chiesa non può dimenticare la patristica orientale, specialmente quella siriaca, che ha cercato di tradurre questo messaggio per il mondo semitico. E anche il mondo arabo ha una sua patrologia e le sue lettres de noblesse.
Dall'Oriente viene la luce (ex oriente lux) dicevano gli antichi. Ed è questo messaggio di luce che le Chiese orientali hanno mantenuto e che vogliono condividere con la Chiesa di Roma. Luce che è Cristo nel suo mistero di trasfigurazione. Luce che è lo Spirito diffuso nella liturgia divina. La Chiesa è la sposa di luce che vuole vincere le tenebre di un mondo dove l'intolleranza e il dubbio hanno seminato la violenza. Maria vergine e madre di tutti i popoli è l'icona di questa Chiesa.
"Chi ha orecchi, ascolti quello che lo Spirito dice alle Chiese". Il ritornello del veggente di Patmos alle Chiese dell'Apocalisse ha il merito di ricordare che esse sono opera dello Spirito Santo. Gli uomini non riusciranno a distruggerla. Rimarrà un piccolo resto, ma sarà sempre un segno della vittoria di Dio sul mondo. I discepoli sono nel mondo ma non sono del mondo. In Oriente, più che in Occidente, è il carisma dell'apostolo Giovanni che viene meditato.
L'Oriente è vitalmente propenso alla meditazione e alla contemplazione. La sua liturgia ha mantenuto la dimensione del mistero. Il messaggio dell'apostolo Giovanni, che si riassume nel comandamento dell'amore, potrà portare la comunione tra le Chiese e dare loro la forza di rendere testimonianza in mezzo ai musulmani e agli ebrei. Il mondo violento nel quale vivono i cristiani orientali potrà sdrammatizzarsi con il comandamento dell'amore.
Il Deuteronomio ricorda che l'unico comandamento fondamentale è di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze. La tradizione ebraica ha interpretato questo comandamento come esigenza di amare Dio con le due tendenze che sono nel cuore dell'uomo, perché l'uomo è il teatro di una lotta interiore tra il bene e il male.
Amare Dio con l'anima significa essere pronto ad amare Dio con il sangue, sede della nephesh, in caso di persecuzione. E in Oriente non mancano i martiri. Molti furono e sono i cristiani che hanno amato Dio con tutta l'anima.
San Luca nella sua descrizione della Chiesa primitiva ricordava che la moltitudine dei credenti aveva un cuore solo, una anima sola e metteva in comune i beni materiali. In altre parole la Chiesa di Gerusalemme continuava a vivere l'ideale dello shema Israel, perché Gesù stesso aveva risposto alla domanda su quale fosse il primo comandamento citando lo shema Israel (Marco, 12, 29).
La preparazione del grande giubileo del 2000 aveva permesso di radunare a Gerusalemme molti capi delle Chiese orientali nella riflessione sul Padre, sullo Spirito e sul Figlio. Durante l'anno dello Spirito una serie impressionante di conferenze ripeteva costantemente la stessa teologia orientale dello Spirito. Nella tavola rotonda che seguì, uno dei partecipanti pose la domanda: "Abbiamo tutti la stessa teologia dello Spirito, perché siamo divisi?". E un silenzio cadde sull'assemblea.
Durante le celebrazioni eucaristiche i padri sinodali si daranno il segno della pace. Questo gesto ricorderà a tutti il detto (lògion) di Gesù: "Quando presenti la tua offerta sull'altare va prima a riconciliarti con il tuo fratello". Il gesto di riconciliazione - che si riallaccia all'usanza ebraica nel giorno precedente il Kippur - dovrà essere ripreso da tutti i fedeli delle Chiese orientali in spirito e verità.
Anche in Oriente si parla di nuova evangelizzazione. Questo nuovo annuncio di Cristo - al quale si aprono anche le strade nuove di internet - non si potrà fare se i cristiani dimostrano nei fatti il contrario di quello che proclamano nelle Scritture. I cristiani sono destinati a unirsi o a scomparire dall'Oriente.

(©L'Osservatore Romano - 13 ottobre 2010)

martedì 12 ottobre 2010

La questione capitale al centro dei lavori del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente

Essere cristiani o non esserlo più

di Manuel Nin


Al rientro del suo pellegrinaggio in Terra Santa, Benedetto XVI nel settembre 2009, alla presenza dei patriarchi e dei capi delle diverse Chiese orientali cattoliche, e accogliendo la loro richiesta, convocò il Sinodo per il Vicino Oriente. La vita concreta delle Chiese cristiane orientali cattoliche, le loro sfide, le loro speranze, i loro timori portarono i loro pastori a proporre al vescovo di Roma d'indire la celebrazione di questo strumento della vita ecclesiale. L'uso e il significato della parola sinodo, termine forse più nuovo in Occidente, non lo è per l'Oriente, e molto meno per quell'Oriente cristiano, che chiamiamo appunto "prossimo" e che raccoglie la sua eredità multiforme soprattutto dall'antichissima sede di Antiochia.
Mentre lungo i primi secoli dell'era cristiana l'altra grande sede episcopale dell'Oriente cristiano, quella di Alessandria, ebbe nell'episcopato stesso e nella scuola teologica della città il luogo di riflessione sia teologica che ecclesiologica, e che si manifestò nelle grandi figure che vanno da un Origene (ii-iii secolo) a un Cirillo di Alessandria (v secolo); la Chiesa antiochena lungo la sua storia bimillenaria, ebbe invece nell'istituzione sinodale lo strumento fondamentale per affrontare e risolvere i problemi sia di carattere teologico che ecclesiologico. Dalla seconda metà del iii secolo fino al vi secolo ben inoltrato, Antiochia fu sede di diversi sinodi che affrontarono temi dottrinali ed ecclesiologici molto importanti: la questione attorno a Paolo di Samosata nel sinodo del 268; nei decenni dopo il concilio di Nicea del 325 tutti i diversi sinodi antiocheni che coinvolsero i vescovi della regione nell'accettazione o meno del credo niceno, e che furono sinodi soprattutto di carattere dottrinale; quindi attorno alla figura di Melezio di Antiochia eletto vescovo nel 360, tutti sinodi che affrontarono questioni di carattere fortemente ecclesiologico e che coinvolsero anche la sede romana e le grandi figure episcopali di Basilio di Cesarea e Damaso di Roma.
Quella città dove i cristiani furono per prima volta chiamati con tale appellativo (cfr Atti degli Apostoli, 11, 26) è la culla di una buona parte delle tradizioni culturali, linguistiche, liturgiche e teologiche dell'Oriente cristiano. In modo speciale Antiochia è il grembo di tre grandi tradizioni liturgiche che ancora oggi conformano la vita teologica, liturgica e spirituale di diverse Chiese orientali: la tradizione siro orientale; quella siro occidentale e quella bizantina.
Nell'ormai lontano 1977 uno dei migliori conoscitori e amatori del Vicino Oriente cristiano, padre Jean Corbon (1924-2001) pubblicava L'Eglise des Arabes, un libro illuminante e indispensabile nel suo genere, in cui l'autore analizza e approfondisce la presenza della Chiesa nell'area mediorientale a partire dalla realtà cristiana della città di Antiochia. All'inizio della sua opera Corbon si chiede quali siano i modi per conoscere e per vivere "una" e "in una" Chiesa. E ne elenca tre. In primo luogo, la necessaria conoscenza "dell'umanità di Cristo che è ogni Chiesa, qua e adesso, da un punto di vista geografico a quello sociologico e anche linguistico". In secondo, luogo la necessaria conoscenza "di quello che oggi succede in ognuna delle Chiese a partire dalla sua storia, dai fatti che l'hanno configurata e travagliata lungo i secoli. La sensibilità per sentire l'armonia della storia" nella vita di quella Chiesa. In terzo luogo, la necessaria conoscenza "della fede, cioè della Chiesa vista e vissuta come mistero di fede, e come mistero di fede che coinvolge e investe la vita di ognuno dei fedeli".
Lungo la sua opera, Corbon analizza nella prima parte la storia cristiana della città di Antiochia, e parlando di questa città lo sguardo dell'autore va a tutto il Vicino Oriente cristiano, sottolineando un fatto che mai potremmo ignorare per capire la realtà, di ieri e di oggi, di queste terre: il processo di inculturazione araba che, al di là delle varianti anche confessionali tra le diverse Chiese cristiane, creerà un forte senso di comunione tra di loro. Fatto, però, che non toglierà la presenza di due altre realtà culturali e linguistiche importanti: quella greca e quella siriaca.
Nella seconda parte dell'opera, Corbon fa un'analisi accurata della situazione attuale della Chiesa antiochena - leggiamo di tutto il Vicino Oriente - e propone dei punti su cui riflettere per capirne i veri problemi. In primo luogo, la problematica delle realtà ecclesiali provenienti dall'Occidente, sia di ambito cattolico latino che riformato, e insiste sulla necessità vitale di rifiutare qualsiasi forma di proselitismo sia di carattere ecclesiologico che liturgico - evitando forme oggi diremmo di sincretismo e di ibridismo liturgico tra diverse tradizioni che hanno ognuna un patrimonio unico e intangibile. In secondo luogo, Corbon accenna alla realtà delle Chiese orientali cattoliche in ambito antiocheno: armeno cattolica, greco cattolica, siro cattolica e caldea, e al loro rapporto con le Chiese sorelle di comunione ortodossa.
L'autore insiste "sull'asse attorno al quale tutte le questioni si unificano e si chiariscono, cioè la comunione nella carità tra le Chiese. È attorno a questo asse che tutte le altre questioni possono essere abbordate, senza per niente minimizzarle".
All'inizio della celebrazione del Sinodo, l'opera di Jean Corbon diventa dunque sicuramente profetica in molti aspetti e in qualche modo si potrebbe proporre quasi come un secondo Instrumentum laboris per le riflessioni dei padri sinodali che in queste due settimane sono chiamati sì a radunarsi, incontrarsi, pregare insieme, ma soprattutto chiamati a mettere sul tavolo con schiettezza non disgiunta da grande carità, i problemi dei cristiani oggi nel Vicino Oriente. In quella realtà multiculturale e multietnica che è il bacino orientale del Mediterraneo e dei paesi che lo circondano.
Vescovi di diversi Paesi, di diverse lingue, di tradizioni liturgiche e anche spirituali diverse si incontra per riflettere sui problemi pastorali e soprattutto sulla vita delle Chiese, sulla situazione ogni giorno più precaria in vista alla continuità di una presenza cristiana autoctona in quelle terre dove il cristianesimo nacque e si sviluppò come Chiesa.
Corbon conclude la sua opera citando la frase del Patriarca Atenagora e che potrebbe essere anche uno dei fili conduttori delle riflessioni dei padri sinodali: "La questione dell'unità tra i cristiani non è più una questione su quello o quell'altro modo di essere oggi Chiesa, ma la questione di essere cristiani o non esserlo più".


(©L'Osservatore Romano - 13 ottobre 2010)

sabato 9 ottobre 2010

Sinodo del Medio Oriente: novità e numeri.


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rchivio ,
Cipro 2010




Presentato in Sala Stampa vaticana da mons. Nikola Eterovic

ROMA, venerdì, 8 ottobre 2010 (ZENIT.org).- L'Assemblea speciale per il Medio Oriente riunirà per la prima volta attorno al Vescovo di Roma quasi tutti gli Ordinari cattolici del Medio Oriente. E' questo uno degli aspetti di maggior rilievo legati a questo evento ecclesiale che avrà luogo in Vaticano dal 10 al 24 ottobre 2010, sul tema “La Chiesa Cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza”. Per la prima volta, inoltre, il Sinodo avrà come lingua ufficiale anche l’arabo e vedrà due Presidenti delegati nominati dal Papa ad honorem, ovvero il Cardinale Nasrallah Sfeir, Patriarca di Antiochia dei Maroniti in Libano, e Sua Beatitudine Emmanuel III Delly, Patriarca di Babilonia dei Caldei, in Iraq. A presentare questo evento ecclesiale è stato venerdì mattina nella Sala Stampa della Santa Sede, monsignor Nikola Eterovic, Segretario generale del Sinodo di Vescovi. Questa Assemblea sinodale sarà la più breve mai celebrata finora: durerà solo 14 giorni a causa del numero ridotto di partecipanti, della semplificazione della metodologia dei lavori sinodali, e poiché essendo i cattolici una minoranza in Medio Oriente, la Santa Sede non ha voluto tenero lontani per troppo tempo i Pastori dai loro fedeli. La Chiesa in Medio Oriente abbraccia ben 16 Paesi - Arabia Saudita, Bahrein, Cipro, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Iran, Iraq, Israele, Kuwait, Libano, Oman, Qatar, Siria, Turchia, Territori Palestinesi e Yemen – coprendo una regione che si estende su 7.180.912 kmq in cui vivono 356.174.000 persone, di cui 5.707.000 cattolici, che rappresentano l’l,6 % della popolazione (il numero approssimativo dei cristiani sarebbe di circa 20.000.000 di persone e cioè il 5,62 % della popolazione). All'Assemblea Speciale per il Medio Oriente parteciperanno 185 padri sinodali 159 dei quali ex oficio. Tra di loro vi sono 101 ordinari delle circoscrizioni ecclesiastiche del Medio Oriente, come pure 23 della Diaspora, che hanno cura dei fedeli delle Chiese orientali cattoliche emigrati dal Medio Oriente in varie parti del mondo, come Francia, Italia, Canada, Stati Uniti e Brasile. Bisogna inoltre rilevare la presenza di 19 Vescovi dai Paesi limitrofi dell’Africa del Nord e dell’Est, come pure dai Paesi con consistenti comunità cristiane provenienti dal Medio Oriente, in particolare nell’Europa e nel continente americano All’Assise sinodale partecipano anche capi di 14 Dicasteri della Curia Romana, più connessi con la vita della Chiesa nel Medio Oriente. Inoltre, Benedetto XVI ha nominato 17 Padri sinodali. Vi sono poi 10 rappresentanti dell’Unione dei Superiori Generali. Tra i Padri sinodali vi sono 9 Patriarchi (7 dei quali in esercizio), 19 Cardinali, 65 Arcivescovi, 10 Arcivescovi titolari, 53 Vescovi, 21 Vescovi ausiliari, 87 religiosi di cui 4 eletti dall’Unione dei Superiori Generali. Per quanto riguarda gli uffici svolti, vi sono 9 Capi dei Sinodi dei Vescovi delle Chiese orientali cattoliche sui iuris, 5 Presidenti delle Riunioni Internazionali delle Conferenze Episcopali, 6 Presidenti di Conferenze Episcopali, 1 Arcivescovo coadiutore, 4 emeriti, di cui 2 Cardinali, il Patriarca latino emerito di Gerusalemme e 1 Vicario Patriarcale. Parteciperanno anche 36 esperti e 34 uditori, donne e uomini. Contando anche i membri della Segreteria generale, i traduttori e gli assistenti, come pure altre persone che svolgeranno servizi tecnici, all’Assise sinodale parteciperanno in tutto circa 330 persone. Saranno presenti rappresentanti di altre 6 Chiese orientali cattoliche: etiopica, greca, romena, siro-malabarese, siro-malankarese e ucraina. Su 185 Padri sinodali, 140 saranno di tradizioni orientali cattoliche. Pertanto, i Vescovi di tradizione latina saranno 45, di cui 14 quelli del Medio Oriente (nell’Assemblea speciale per il Libano erano presenti 53 Vescovi di tradizioni orientali cattoliche e 16 di tradizione latina). Sono previste 14 congregazioni generali e 6 sessioni dei circoli minori. L'informazione sull'attività sinodale sarà assicurata da quattro addetti nelle lingue araba, francese, inglese e italiana che incontreranno i giornalisti ogni giorno, eccetto lunedì 11, lunedì 18 e sabato 23 ottobre quando sono previste invece le conferenze stampa con la partecipazione dei padri sinodali.

da: www.zenit.org


giovedì 7 ottobre 2010

XX Anniversario della Promulgazione del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali




Il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi
in collaborazione con la Congregazione per le Chiese Orientali,
il Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani
& il Pontificio Istituto Orientale



nella ricorrenza del XX Anniversario della Promulgazione
del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali
organizza il Convegno di Studio
Il Codice delle Chiese Orientali:
la storia, le legislazioni particolari, le prospettive ecumeniche
8-9 ottobre 2010
Via della Conciliazione - Sala San Pio X

Comunione e solitudine: conflitto o armonia?












Kallistos Ware, metropolita di Diokleia


“Il regno dei cieli subisce violenza…”

“Il regno dei cieli, dice Cristo, subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11,12). Sono parole che si applicano in modo particolarmente immediato alla vita del solitario. Noi esseri umani siamo creati da Dio a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26-27). Come dire che siamo creati a immagine della santa Trinità, secondo la somiglianza di un Dio che non è solo uno ma uno in tre, di un Dio che è amore reciproco. Siamo icone di un Dio il cui essere è un essere relazionale, un Dio di società e di comunità, anche se in un modo che trascende infinitamente qualunque società e comunità umana. Gli uomini dunque, formati come sono a immagine di questa triuna divinità, sono creati per la relazione e per l’amore e il servizio reciproco. Sono creati come membri di un corpo unico, ed è precisamente questa interdipendenza che è riaffermata nella vita della chiesa (1Cor 12,12-27; Ef 4,25). La stessa parola che indica la persona in greco, prosopon, evidenzia lo stesso concetto, poiché significa letteralmente “faccia”, o “fisionomia”. Io non sono veramente persona finché non mi metto di faccia ad altri, guardando nei loro occhi e lasciando che essi guardino i miei.

Se tutto questo è vero, la conseguenza non è forse che la vita solitaria contraddice ciò che significa essere una persona nella divina immagine trinitaria? La vita in solitudine non è forse un atto di violenza contro il carattere relazionale della nostra natura umana? Questo è un problema che disturba particolarmente san Basilio il Grande. “Chi non sa”, egli protesta, “che l’uomo è un animale mansueto e socievole, non solitario e selvaggio?”. La parola che Basilio usa qui per dire “solitario” è monastikòn, che significa “monastico”. “Nulla”, egli continua, “è così caratteristico della nostra natura quanto l’associarsi l’uno all’altro, l’aver bisogno l’uno dell’altro, e l’amare i nostri simili”. Ciò che disturba Basilio è il fatto che al solitario manca l’opportunità di dimostrare agli altri quella compassione pratica che è fondamentale per il nostro essere uomini. “Di chi laverai i piedi”, chiede Basilio, di chi ti prenderai cura, in che modo potrai essere l’ultimo di tutti, se vivi da solo?” Non bisogna concludere dalle parole di Basilio che egli fosse contrario per principio alla vita solitaria. Al contrario, secondo san Gregorio di Nazianzo Basilio lottò per riconciliare e unire la vita comunitaria e quella eremitica mediante la fondazione di celle per anacoreti non lontano dalle sue case cenobitiche. E qui certamente possiamo trovare degli inizi di risposta alle difficoltà da lui sollevate. Solitudine e comunione, si può sostenere, non si escludono a vicenda. Sono interdipendenti e complementari. È questa una verità che Cicerone evidenzia quando parla di se stesso come di persona “mai meno sola di quando è sola” (nec minus solum quam cum solus esset). Una persona, in altri termini, può essere sola nel senso che non è nell’immediata compagnia di altri, e tuttavia, se vive un’intensa e creativa vita spirituale, nelle proprie profondità scopre un indissolubile vincolo di comunione con gli altri. Ritiro non significa necessariamente isolamento, solitudine non implica lontananza e disinteresse. Quanti sono compartecipi della nostra umanità possono essere fisicamente assenti, ma sono spiritualmente presenti. La comunione può esistere a molti diversi livelli. Dal suo deserto cristiano, Evagrio Pontico afferma la stessa cosa quando dice che il monachòs, con cui forse intende non solo il monaco ma proprio il solitario, è “separato da tutti e unito a tutti”. Questo descrive esattamente la situazione dell’anacoreta, uomo o donna che sia: “separato da tutti” esternamente, in termini spaziali o topografici, ma interiormente e spiritualmente “unito a tutti” attraverso la preghiera.

L’eremita e il monastero principale

Cerchiamo di esplorare due modi in cui tale interazione fra solitudine e comunione si compie nella pratica. Innanzitutto esploriamo più a fondo la situazione indicata da Basilio, con dei solitari viventi ai margini di una comunità cenobitica e dipendenti da essa. Poi esaminiamo il modo in cui opera il cenobio come preparazione per la vita solitaria.

Due monasteri particolarmente importanti dell’epoca bizantina di mezzo, la Grande Lavra sul Monte Athos fondata attorno al 963 e San Giovanni Teologo a Patmos fondato attorno al 1088, nei loro typica legiferano sul genere di legame intravisto da Basilio fra cenobio e vita solitaria. Alla Grande Lavra sant’Atanasio stabilisce che tra i 120 monaci facenti parte della comunità non più di cinque alla volta siano autorizzati a vivere fuori dal monastero come solitari. Questi “kellioti”, come sono chiamati, ricevono il loro cibo dal monastero. Ciascuno di essi può avere un discepolo che vive con lui; dunque la loro solitudine di fatto non è totale. I “kellioti” continuano ad esser tenuti all’obbedienza all’abate. Con la benedizione dell’abate un monaco può anche vivere da recluso nella sua cella entro le mura del monastero.

Le disposizioni adottate a Patmos da san Cristodulo sono simili. Non più di dodici solitari alla volta sono autorizzati a vivere fuori dal monastero principale. Devono tornare al monastero ogni sabato, rimanendo la notte per l’ufficio di vigilia e partecipando alla liturgia della domenica mattina. Poi tornano ai loro eremi la domenica pomeriggio con cibo sufficiente perché possano mantenersi durante la settimana. Devono venire al monastero anche per le feste più importanti. Mentre sono in monastero i solitari mangiano alla tavola comune, ma non hanno il permesso di parlare con nessuno tranne che con l’abate. Allo stesso modo non devono parlare con estranei quando vivono nei loro eremi durante la settimana. Nei giorni feriali nei loro eremi devono avere un pasto al giorno, dopo l’ora nona, e devono mangiare solo cibo non cotto. I solitari rimangono vincolati a una stretta obbedienza al loro abate; se mostrano segni di volontà propria e di insubordinazione sono immediatamente richiamati a vivere entro il monastero.

Questi due esempi mostrano come le disposizioni intraviste da Basilio, con solitari viventi in prossimità di un monastero cenobitico, possono essere attuate nella pratica. Quello che è particolarmente significativo, in particolare nel caso di Patmos, è il modo in cui i solitari continuano a mantenere uno stretto legame con il monastero, rivisitandolo ogni fine settimana e rimanendo saldamente vincolati all’obbedienza all’abate. Oggi non ci sono solitari a Patmos, mentre sulla Santa Montagna la situazione è considerevolmente mutata rispetto a quella stabilita da Atanasio. Tutti i solitari sull’Athos, è vero, sono in linea di principio dipendenti da uno dei monasteri principali, dato che l’intero territorio athonita è diviso fra le venti case di governo. Ma in pratica il legame dell’eremita con il monastero principale è difficile che sia molto stretto. Certo, l’eremita può talvolta visitare il monastero principale, ma probabilmente lo farà meno frequentemente di ogni fine settimana. Di solito non riceve rifornimenti regolari di cibo dal monastero, e in molti casi non è vincolato a una rigida obbedienza all’abate, benchè possa avere un padre spirituale (magari un altro eremita) che gli fornisce una guida personale.

Gli eremiti all’Athos vivono in un ambiente privilegiato e protetto. Per i solitari fuori della Santa Montagna, vivere entro il territorio di una casa istituita come cenobitica offre ovvi vantaggi. Essi possono ricevere rifornimenti dal monastero principale senza dover uscire fino alla vicina città o paese per fare le spese, e il monastero può proteggerli da visitatori indesiderati. Nell’altro senso, il che è ben più importante, la presenza nascosta di eremiti nascosti approfondirà e arricchirà la preghiera quotidiana dei monaci cenobiti.

Prima impara a vivere con gli altri…

In secondo luogo, l’interdipendenza tra vita in comunità e vita in solitudine è evidente nel modo in cui la prima opera come preparazione per la seconda. Come dice abba Lukios nei Detti dei padri del deserto, “se non impari prima a vivere con gli altri, non sarai capace di vivere in solitudine come dovresti”. Il futuro eremita deve prima essere provato e saggiato dall’esperienza della vita nel cenobio.

Questo schema, con la comunità come preparazione per la solitudine, è chiaramente visibile nel monachesimo palestinese dei secoli quinto e sesto. Quando san Saba, giovane di diciott’anni, chiede di essere ammesso alla laura semi-eremitica di sant’Eutimio, quest’ultimo non gli permette di rimanere là ma lo manda al vicino cenobio di Teoctisto. “Figlio mio”, dice Eutimio, “non è bene per te stare in una laura, perché sei ancora giovane. Per un giovane è meglio vivere in un cenobio”. Dopo dodici anni di vita cenobitica Saba ha il permesso di trasferirsi in una grotta vicino al monastero, dove passa cinque giorni della settimana in solitudine tornando al monastero per il sabato e la domenica. Poi, dopo altri cinque anni si ritira nel deserto profondo, senza incontrare nessuno e nutrendosi di piante selvatiche. Quando Saba diviene capo della sua comunità segue la pratica di Eutimio. Non ammette i giovani candidati immediatamente alla laura semi-eremitica sotto la sua direzione, ma li invia a un cenobio speciale istituito per i novizi. Dopo essere stati saggiati nella vita comune essi possono ricevere il permesso di avere una cella propria alla laura. Saba dice a Giovanni l’esicasta: “Come il germoglio precede il frutto, la vita cenobitica precede l’anacoretica”.

Lo schema palestinese è inserito nella legislazione canonica bizantina. Il canone 41 del concilio in Trullo (anno 692) specifica che quanti intendono essere eremiti devono passare almeno tre anni in cenobio sotto l’obbedienza di un abate. Poi devono essere esaminati dal vescovo diocesano, dopodichè passano un ulteriore anno preparatorio in cenobio. “Quando questi quattro anni sono trascorsi”, stabilisce il canone, “se essi persistono nella loro intenzione devono essere reclusi. In seguito non saranno autorizzati ad abbandonare la loro reclusione sotto nessun pretesto, a meno che non sia a beneficio comune o perché ne sono costretti da qualche impellente motivo che mette in pericolo la loro vita; e anche allora devono prima ottenere la benedizione del vescovo locale”.

Oggi le norme del canone 41 in Trullo non sono più osservate con esattezza. Innanzitutto molti monasteri ortodossi sono stavropegici per statuto, e sono dunque fuori della giurisdizione del locale vescovo diocesano. Questa è in particolare la situazione dei venti monasteri che governano il Monte Athos. In tal caso la decisione di autorizzare un monaco a ritirarsi in solitudine spetta esclusivamente all’abate del monastero in consultazione con il consiglio dei fratelli anziani. Inoltre molti monaci vivono in comunità per ben più di quattro anni prima di diventare solitari. Nella Russia del diciannovesimo secolo, ad esempio, san Serafino di Sarov passò otto anni da novizio e altri otto anni da monaco professo nel monastero principale prima di ricevere la benedizione per trasferirsi in una cella solitaria nella foresta alla distanza di quattro miglia.

C’è di più: l’atto del recedere dalla vita eremitica è in pratica meno irrevocabile di quanto in canone 41 in Trullo richieda. Non è infrequente che dei monaci, dopo aver dimorato in solitudine per qualche tempo, chiedano di essere riammessi al cenobio anche se nessun “impellente motivo che mette in pericolo la loro vita” li obblliga a farlo. Una simile richiesta di tornare al monastero principale è normalmente accolta senza grande difficoltà. Le autorità monastiche possono anche ordinare a un solitario di tornare al cenobio, indipendentemente dai suoi desideri. Così accadde a san Serafino: dopo sedici anni di ritiro nella foresta le sue gambe cominciarono a gonfiarsi, ed egli ebbe sempre più difficoltà a camminare fino al monastero per la Divina Liturgia e la santa Comunione. Così l’abate gli inviò un messaggio perentorio con l’ordine di abbandonare il suo eremo e tornare al monastero. Allora però fu autorizzato a vivere in stretta reclusione nella sua cella, senza partecipare agli uffici della chiesa principale.

Bisogna anche fare una concessione al fatto che nel monachesimo dell’oriente cristiano, accanto ai due estremi che sono il cenobio e la vita eremitica esiste una terza situazione intermedia: è la laura, o skiti. Essa può essere considerata come semi-cenobitica o semi-eremitica, a seconda del punto di vista da cui la si guarda. Questa terza via si trovare soprattutto al Monte Athos, nelle skiti di Aghia Anna, Kafsokalyvia, Kerasia e altrove. La skiti moderna è un villaggio monastico con una chiesa centrale circondata da una serie di casette ciascuna occupata da un piccolo gruppo di monaci, normalmente fra i due e i sei. Spesso un postulante va a vivere direttamente in una skiti, senza essere mai passato da un cenobio pienamente organizzato.

La transizione dalla vita semi-eremitica della skiti a una vita pienamente eremitica può avvenire gradualmente, senza drastiche trasformazioni. Può darsi che uno dei due monaci di un determinato kellion sia morto, per cui ne rimane solo uno che dunque dimora per conto suo come un solitario di fatto. Oppure un monaco può scegliere di abbandonare un kellion più centrale e popolato e organizzare la sua dimora da solitario in una casetta più in disparte ai margini della skiti. All’Athos ci sono anche solitari viventi in maggiore isolamento a una certa distanza da ogni skiti. Sovente un monaco vivente in solitudine è raggiunto da uno o più discepoli, e passa così gradualmente da un genere di vita eremitico a uno semi-cenobitico.

L’esistenza nel monachesimo orientale della skiti o laura accanto al cenobio vero e proprio e alla cella dell’eremita significa che in pratica la linea di demarcazione tra vita in comunità e vita eremitica è alquanto sfocata e indistinta. Fra i due estremi di piena comunità e piena solitudine possono frapporsi varie possibilità, e un monaco nel corso della sua carriera monastica può passare da diverse situazioni. Questa varietà è vista nell’ortodossia non come un difetto ma come arricchimento e benedizione. Comunità e solitudine possono sovrapporsi in maniera positiva e donatrice di vita.

Il programma quotidiano del solitario

Come dovrebbe un solitario organizzare il suo tempo ogni giorno? Anche qui c’è varietà, ed è giusto che sia così. Come afferma William Blake, “una sola legge per il leone e per il bue significa oppressione”. San Cristodulos, lo si è detto, prevede che i suoi eremiti vivano di vegetali crudi e che mangino una volta al giorno di pomeriggio. Una descrizione un po’ più completa del programma quotidiano dell’eremita e della sua dieta ci è fornita da un testimone del quattordicesimo secolo, san Gregorio Sinaita. Egli divide il giorno in quattro periodi di tre ore ciascuno. Partendo dall’aurora, il solitario esicasta impiega la prima ora del giorno in ciò che Gregorio chiama “ricordo di Dio attraverso la preghiera e la vigilanza del cuore”, cioè in primo luogo la recitazione della preghiera di Gesù. La seconda ora è dedicata alla lettura e la terza alla psalmodia, la recitazione del salterio. Gregorio probabilmente prevede che il solitario conosca il salterio a memoria. Il secondo e il terzo di questi periodi di tre ore sono consacrati alle stesse tre attività, nello stesso ordine. Poi, alla decima ora del giorno il solitario prepara e consuma il suo pasto. All’undicesima ora, se vuole, può prendersi un breve riposo. Alla dodicesima ora recita vespro. Gregorio non menziona le ore minori della giornata, cioè le ore di terza, sesta e nona, ciascuna delle quali prende una decina di minuti: facilmente sono dette rispettivamente nei tre periodi assegnati alla salmodia. Non c’è neppure un riferimento alla compieta, che forse va detta attorno al tramonto, non molto tempo dopo il vespro.

Per la notte Gregorio propone tre programmi alternativi. Gli “incipienti” devono passare metà della notte svegli e l’altra metà dormendo, con mezzanotte come punto di divisione; non importa quale metà della notte è usata come veglia. Quelli “a metà del cammino” (mesoi) devono passare le prime due ore della notte svegli, le successive quattro dormendo e le sei restanti svegli. Il “perfetto”, aggiunge Gregorio con asciutto tocco di umorismo, non ha bisogno di dormire, per cui può passare tutta la notte stando in piedi e rimanendo sveglio. Nelle ore di veglia della notte il solitario recita il mattutino (orthros) e probabilmente prima di esso il mesonykton, o ufficio di mezzanotte; poi, all’aurora, l’ora prima. Il resto della veglia notturna si può passare ancora nella recitazione del salterio, nella lettura, e soprattutto nella pratica della preghiera di Gesù. È significativo che il solitario non è esentato dalla recitazione dell’ufficio divino. Ma cosa succede se non sa leggere? Gregorio non lo dice; probabilmente in questo caso si prevede che egli dica la preghiera di Gesù, e di fatto esistono regole precise, che specificano quante centinaia di preghiere di Gesù devono sostituire le diverse parti dell’ufficio divino.

Come nei regolamenti per Patmos, Gregorio prevede che il solitario mangi solo una volta al giorno, dopo l’ora nona e prima del vespro. Egli non fa menzione di alcun pasto leggero prima di questo. Probabilmente durante la quaresima il solitario, seguendo le normali regole ortodosse, non mangiava fino a dopo vespro. Nella prima settimana di quaresima e nella settimana santa osservava indubbiamente un digiuno più rigoroso, come fanno molti monaci nei cenobi. Gregorio permette al solitario di mangiare una libbra di pane al giorno, di bere due coppe di vino e tre di acqua. Altrimenti il suo cibo deve consistere in “qualunque cosa sia a portata di mano, non qualunque cosa il tuo impulso naturale ricerca, ma ciò che la provvidenza provvede, da essere mangiato senza troppa spesa”. Questo probabilmente comprendeva verdure fresche, quando ce n’erano; perché molti eremiti, e tale è il caso al Monte Athos oggi, hanno un piccolo orto.

Gregorio Sinaita non è molto esplicito sul luogo di lavoro nel programma del solitario. Dice soltanto: “Ci sono tre pratiche benedette da Dio: la salmodia, la preghiera e la lettura; e il lavoro manuale per quelli il cui corpo è debole”. Il che fa pensare che un solitario “forte” non aveva bisogno di lavorare; ma è difficile che questa sia l’intenzione di Gregorio, dato che dal quarto secolo in poi viene dato per scontato nell’oriente cristiano che il monaco non deve chiedere l’elemosina ma deve guadagnarsi il cibo. Sulla scorta di san Paolo il monaco dice: “Alle necessità mie hanno provveduto queste mie mani” (At 20,34). “Lavoro manuale”, nel caso di un solitario, può significare qualche semplice operazione di manualità quale la confezione di ceste. Gli attuali eremiti dell’Athos spesso si occupano dipingendo icone, intagliando il legno, preparando incenso, o fabbricando rosari per la preghiera (komvoschoinia). I salmi o la preghiera di Gesù può essere recitata durante queste operazioni di manualità. Ma quando il solitario intende dire la preghiera di Gesù con concentrata “vigilanza del cuore” non cerca certo di combinarla con un’attività esterna.

Gregorio non solleva la questione del silenzio. Il solitario riceve talvolta dei visitatori? È autorizzato a cercare altri eremiti dei dintorni e parlare con loro di questioni spirituali? Cristodulos scoraggia simili contatti. Tuttavia a giudicare dai Detti dei padri del deserto la maggior parte dei “vecchi” del deserto egiziano erano notevolmente socievoli; visite reciproche tra reclusi erano accettate come normali e perfino desiderabili. Questa continua ad essere la pratica all’Athos oggi. Ma è chiaro che singoli anacoreti possono sentire la chiamata, o per un tempo o per tutta la vita, di entrare in un totale silenzio. Serafino di Sarov in una fase del suo soggiorno nella foresta non parlò con nessuno; non apriva la porta ai visitatori e se incontrava qualcuno nei sentieri del bosco si metteva a giacere sulla faccia fino a che l’altro si fosse allontanato.

Il programma delineato da Gregorio Sinaita è indubbiamente severo, anche se non disumano. Più tardi nel tredicesimo secolo, san Callisto e sant’Ignazio Xanthopulos proposero un regime un po’ più facile. Al tramonto il solitario deve dire la preghiera di Gesù per circa un’ora, e poi recitare compieta continuando con un’altra mezz’ora di preghiera di Gesù. Poi, dopo un periodo di esame di coscienza si ritira per riposare, e dorme circa cinque o sei ore secondo il periodo dell’anno. La restante parte della notte è dedicata alla preghiera di Gesù e all’ufficio divino (mesonyktikon, orthros, l’ora prima). La mattina va trascorsa con la preghiera di Gesù e la lettura, specialmente delle Scritture. Le ore minori vengono dette nei momenti appropriati. Quando è giorno di digiuno il solitario mangia una volta sola, all’ora nona. Negli altri giorni può mangiare due volte, con il primo pasto a mezzogiorno. Dopo il pasto di mezzogiorno può dormire un’ora, se è estate e le giornate sono lunghe. Nel pomeriggio pratica il lavoro manuale, recitando nel contempo la preghiera di Gesù. Al tempo appropriato si dice vespro, seguito probabilmente dal secondo pasto se questo viene preso. Si permette una certa flessibilità per quanti trovano difficile dire la preghiera di Gesù per lunghi periodi. Così gli Xantopuloi, come Gregorio Sinaita, prevedono che il solitario reciti l’ufficio divino per intero. Le regole degli Xantopuloi a proposito di cibo e sonno corrispondono più o meno a quanto sarebbe richiesto a un monaco in un cenobio. Qui, nel programma degli Xantopuloi più che in quello di Gregorio, vi è un modello che potrebbe benissimo essere seguito da un solitario nel ventunesimo secolo.

Gli Xantopuloi sottolineano la necessità che il solitario legga la Sacra Scrittura, e questo è un punto menzionato spesso anche in altre fonti. Era pratica di Serafino di Sarov, ad esempio, quand’era recluso nella sua cella entro il monastero, di leggere ogni settimana i quattro Evangeli per intero: Matteo lunedì, Marco martedì, Luca mercoledì, Giovanni giovedì; nei giorni restanti gli Atti e le lettere. In tal modo la vita solitaria diviene una vocazione evangelica e scritturistica per eccellenza.

“Battersi con leoni e tigri”

Quanto si diceva sopra sul regime proposto dagli Xantopuloi come “un po’ più facile”, va inteso in termini relativi; perché presa in se stessa, la vocazione solitaria non è mai facile. Paragonando il genere di vita comunitario con quello solitario, Evagrio dice che quando un monaco dimora con altri i demoni lo attaccano indirettamente, attraverso le molestie causategli dai fratelli e attraverso le varie tensioni esistenti in comunità. Quando invece egli va nel deserto, i demoni non usano più altri uomini come intermediari ma lo attaccano direttamente. Per quanto irritanti i nostri fratelli possano essere, è incomparabilmente più facile sopportare loro che non incontrare i demoni faccia a faccia. Dunque proprio come i demoni sono più terribili degli altri uomini la vita solitaria è molto più dura di quella comunitaria. I santi della tradizione russa confermano questa analisi. “La solitudine richiede la fortezza di un angelo”, dice san Nilo Sorsky. San Serafino di Sarov, che conosceva di prima mano la vita del cenobita e quella dell’eremita, non aveva illusioni su quale delle due fosse la più esigente: “Era restio”, ci vien detto, “a consigliare altri a vivere nel deserto. Uno che vive nel deserto, avvisava, deve essere come una persona inchiodata alla croce; e aggiungeva che se nella lotta contro il nemico i monaci nel monastero combattono come se si battessero con colombe, l’uomo nel deserto doveva combattere come uno che si batte con leoni e tigri”.

“Acquisisci la pace interiore…”

Occorre dire qualcosa di più, prima di chiudere, sulla difficoltà sollevata all’inizio. Come possiamo rispondere a san Basilio quando questi chiede: “Di chi laverai i piedi… se vivi in solitudine?” Che servizio rende il solitario al mondo che lo attornia? Non è egoista e antisociale ritirarsi in reclusione, volgendo le spalle, così sembra, alle angosce e alle sofferenze degli altri uomini? Si tratta di una critica alla vita solitaria che è stata fatta spesso, già nel passato e più diffusamente nel nostro tempo. Cosa rispondiamo?

È ovviamente possibile replicare con le parole di Cristo: “Quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto” (Mt 6,6). Cristo stesso si ritirava regolarmente “in un luogo deserto” per pregare (Mc 1,35; Lc 4,42). Ma certamente, quando Cristo dice “chiudi la porta” parla di qualcosa che dobbiamo fare ogni tanto, in modo temporaneo, prima di tornare nuovamente ai doveri e alle richieste della nostra vita quotidiana in società. Non suggerisce di tenere la porta costantemente chiusa. Afferma semplicemente che nella vita di ogni persona attiva nel lavoro sociale occorre una dimensione di solitudine. Cosa diremo dunque di coloro per i quali la solitudine è una condizione permanente? Fra tutte le possibili risposte alla domanda di san Basilio, la migliore a mia conoscenza è quella fornita da san Serafino. “Acquisisci la pace interiore, egli dice, e migliaia attorno a te troveranno la salvezza”. Il solitario è in grado supremo uno che cerca con la grazia di Dio di acquisire la pace interiore; ed è precisamente in questo modo che assiste ali altri. Se in ogni generazione ci sono non più di un pugno di persone, uomini e donne, che nella reclusione hanno acquisito la pace del cuore, essi hanno sull’intera comunità umana che li circonda un effetto creativo che supera ogni calcolo (anche se naturalmente l’acquisizione della pace interiore è possibile anche a quelli che vivono in mezzo alla società). Ora i solitari che hanno acquisito la pace interiore possono certamente aiutare gli altri uomini direttamente agendo da padri e madri spirituali, dando consigli a quanti vanno da loro di persona cercando assistenza. Una guida di questo tipo fu l’eremita egiziano sant’Antonio, che nella seconda metà della sua vita divenne, con le parole del suo biografo sant’Atanasio di Alessandria, “un medico dato all’Egitto da Dio”. Ma le parole di san Serafino hanno un campo d’applicazione più ampio. Attraverso la loro preghiera nascosta i solitari aiutano anche moltissimi altri ai quali la loro esistenza è totalmente sconosciuta. Diventando fiamme ardenti di preghiera i solitari trasformano il mondo circostante solo con la loro esistenza, con il semplice fatto della loro segreta presenza. È questo il fondamentale contributo fornito da chi è “separato da tutti e unito a tutti”.

Kallistos Ware
Metropolita di Diokleia

paper presentato al XVIII Convegno Ecumenico
Internazionale di spiritualità ortodossa
Monastero di Bose

da: www.natidallospirito.com